Quante volte abbiamo sentito parlare degli uomini di Cosa Nostra? Boss, affiliati, semplici soldati. Poi, gli uomini contro Cosa Nostra: e allora non possono che venirci in mente giudici, carabinieri, procuratori, pentiti, testimoni di giustizia. Rimane ancora poco conosciuto, però, il mondo delle donne legato alla mafia. Per lo più, si tratta di un mondo fatto di silenzi complici e di cultura dell’omertà .
Qualche nome abbiamo imparato a conoscerlo grazie a film e documentari prodotti soprattutto durante gli ultimi anni: abbiamo conosciuto così Felicia Bartolotta Impastato, madre di Peppino Impastato, grazie dall’indimenticabile film “I cento passi” di Marco Tullio Giordana del 2000. Abbiamo conosciuto Rita Atria e Piera Aiello grazie allo splendido documentario di Marco Amenta “Diario di una Siciliana ribelle” del 1997, da cui poi è stato tratto un film nel 2009. Ma non basta. Perché tanti sono stati gli esempi di donne che spinte magari dalla vendetta o dalla semplice sete di giustizia, hanno osato sfidare Cosa Nostra e tutto ciò che rappresenta.
E’ un mondo particolarissimo, quello delle donne che hanno sfidato Cosa Nostra: una sottile linea grigia separa la giustizia dalla vendetta e i toni non sono mai ben definiti. Sono spesso madri coraggio, ma alcune provengono da quello stesso mondo che hanno deciso di sfidare. Due di loro, in particolare, sono state praticamente dimenticate, morte nell’oblio e nella solitudine e senza aver avuto la possibilità di ottenere giustizia terrena: si tratta di Francesca Serio e Serafina Battaglia, unite dalla sete di giustizia, separate dal mondo di provenienza. Una donna contro la mafia, la prima, una donna di mafia, la seconda, ma che ha avuto il coraggio di rompere quel muro d’omertà. Di loro esistono pochissimi documenti: coraggiose interviste concesse a grandi cronisti dell’epoca e rarissimi documenti video trasmessi nottetempo da Rai Storia. Francesca Serio, donna di umilissimi origini, “raccoglitrice di olive”, decide di cambiare radicalmente la propria vita nel 1955, quando il figlio Salvatore Carnevale di appena 32 anni viene ammazzato con un colpo di pistola alla testa e uno alla bocca in una trazzera a Sciara, paese di poco più di duemila anime del Palermitano. Salvatore Carnevale aveva fondato una locale sezione del PSI e aveva anche organizzato una serie di pacifiche manifestazioni con relative occupazioni dei terreni per protestare contro la mancata attuazione delle leggi agrarie, che prevedevano la ripartizioni dei latifondi incolti ai contadini senza terra, andando contro i proprietari terrieri e ai loro campieri, vera longa manus della mafia locale. Pochi giorni prima della sua morte, aveva anche tentato di organizzare uno sciopero generale. Alla morte del figlio, la madre ha deciso di difendere la sua memoria, denunciando in tribunale gli assassini, assistita da un giovane avvocato di origini liguri che aveva raccolto la sua denuncia: Sandro Pertini. Le indagini sembrano prendere la strada giusta: i quattro imputati vengono condannati nel 1961 all’ergastolo in primo grado ma in appello (cosa che accadeva spesso), vengono assolti per insufficienza di prove, assoluzione confermata dalla Cassazione. A Francesca Serio, la prima vera testimone di giustizia donna di cui si ha memoria, non resta che piangere tutta la vita il figlio. Morirà nel 1992, in solitudine e completamente dimenticata da tutti. Storia diversa e allo stesso tempo profondamente simile quella di un’altra donna che ha osato ribellarsi a quel retroterra culturale: Serafina Battaglia. Nel 1962, suo figlio Salvatore Lupo Leale, di soli 21 anni, viene crivellato di colpi. Ma Serafina, a differenza di Francesca, è una donna nata e cresciuta nell’ambiente mafioso: vive ad Alcamo e sia il secondo marito, Stefano Leale, ucciso nel 1960, che il figlio Salvatore, sono entrambi esponenti della cosca locale. A casa sua, si incontravano uomini d’onore di Palermo e alla morte del marito, così come ci si aspettava, non dice nulla. A 50 anni, vedova per la seconda volta, chiede al figlio di vendicare il secondo marito ma Vincenzo e Filippo Rimi lo precedono, uccidendolo nel 1962. Serafina, da quel momento, cerca vendetta e a raccogliere la sua testimonianza ci pensa il giudice istruttore Cesare Terranova. Il fatto di aver conosciuto e frequentato quell’ambiente, offre agli inquirenti uno spaccato veritiero, una vera e propria fotografia di quel mondo. Serafina è una madre coraggio controversa, un fiume in piena di parole. Rilascia interviste ai giornalisti Mario Francese e Mauro De Mauro, veri cronisti di razza che anni dopo verranno anch’essi uccisi, così come morirà il giudice Terranova. Il processo si svolge a Perugia, la stampa la ribattezza “La vedova della lupara”: le cronache raccontano di lei che tira fuori in aula il fazzoletto imbrattato del sangue del figlio, degli sputi agli imputati e di quando si inginocchia davanti ai giudici. Ma gli imputati vengono assolti, dopo 17 anni dalla morte del figlio, per insufficienza di prove. Da quel momento, Serafina non esce più di casa: accusata di essere “pazza” dai parenti, pare dormisse con una pistola per paura di essere ammazzata. Morirà nel 2004, sola e dimenticata. Di lei, esiste una rara intervista trasmessa dalla Rai in cui dichiara di credere “relativamente” alla giustizia terrena, perché non bastano le testimonianze di una madre coraggio. Il suo pessimismo, si è rivelato profetico.