“Appena aperto il frigorifero, la vide. La caponatina! Sciavuròsa, colorita, abbondante, riempiva un piatto funnùto, una porzione per almeno quattro pirsone. (…) Naturali, spontanee, gli acchianarono in bocca le note della marcia trionfale dell’Aida. Canticchiandole, raprì la porta-finestra doppo avere addrumato la luce della verandina. (…) Conzò il tavolinetto, portò fora il piatto, il vino, il pane e s’assittò”. Questo brano è tratto da “La gita a Tindari” di Andrea Camilleri ma in realtà sono tantissimi i racconti e i romanzi che parlano di enogastronomia e di cibo del grande Maestro che ieri ci ha lasciati.
Come dimenticare gli arancini? E la pasta ‘caciata?
E allora eccoli i piatti del commissario Montalbano, che si alternano tra le righe di Camilleri. La Pasta ‘ncasciata a’ missinisi, la pasta ‘a Norma, la pasta chi vrocculi arriminata, anilletti ‘u furnu, milinciani a’ la parmiciana, pappanozza di patate e cipolle, caciocavallo passuluna e alive, purpitelli cu sugu, rollè falsomagro o brusciuluni, pane e panelle, pane e cazzilli, sfinciuni, pani c’a meusa, cubaita, cassatedde o ravioli alla ricotta, granita con la brioscia.
Montalbano mangia nel totale silenzio, meglio se da solo: nemmeno una parola deve interferire con il suo rapporto con il cibo. E’ liccu (goloso) di pasta ‘ncasciata, non può fare a meno delle triglie fritte preparate da Calogero nella sua trattoria in riva al mare preferita e neanche degli arancini della fedelissima cammarera Adelina.
Anche questo è stato Camilleri: un maestro di cultura gastronomica, qualcuno che ci ha insegnato che il cibo non è soltanto “nutrimento”. E’ anche cultura.