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Home Cultura

L’infanticidio di Lecco: riflessioni

by Redazione
5 Novembre 2018
in Cultura
L’infanticidio di Lecco: riflessioni
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Figli. Soffocati, annegati, accoltellati, uccisi brutalmente da chi gli ha donato la vita. Vorremmo poter distogliere lo sguardo per non vedere tanta crudeltà e continuare ad immaginare la madre per come è nella mente di tutti noi. La figura della donna/madre/mamma è sacra. Donna che vede modificare il proprio corpo, che sopporta il travaglio, che si prende cura, sacrifica naturalmente il suo tempo, il suo spazio, le sue relazioni, i suoi affetti, il suo lavoro. E lo accetta. Perché tutto questo è nel suo codice culturale genetico, perché è sempre stato così, perché appartiene alla storia naturale e culturale dell’uomo. Ecco allora le donne che per difendere i propri figli hanno lottato, si sono umiliate, si sono prostituite, sono fuggite. E se questo ha significato il loro annientamento, la loro mortificazione è andato bene lo stesso, perché la donna prima di essere un individuo come tutti è una madre.
Per questo l’omicidio di una bambino per mano materna, oltre ad essere umanamente inaccettabile è anche culturalmente destabilizzante.
E allora per comprendere l’incomprensibile, viene chiamato in causa un ‘deus ex machina’, che impone il proprio arbitrio alle donne guidandole nel più abominevole dei delitti. Il deus ex machina è la pazzia.
La pazzia che stravolge l’immagine di madre nella mente di tutti noi, l’ archetipo della grande madre, descritta da Jung come l’archetipo della pietà e della misericordia. Colei che nutre e dalla quale pian piano ci separiamo continuando per sempre a sentire quella vicinanza rassicurante che ci dà la forza di esplorare con sicurezza un mondo esterno a volte minaccioso. Lo stesso Jung aveva descritto però la duplice natura di quest’archetipo, da una parte la madre amorosa, dall’altra quella depressa di cui il figlio deve prendersi cura, quella narcisista che non ha mai tempo per il suo bambino e quella cattiva, mentalmente sana, che piena di frustrazioni per quello che ritiene la vita non gli abbia dato, maltratta il piccolo con violenze psicologiche e fisiche che possono spingersi fino all’infanticidio.
Ma l’atto estremo , l’omicidio, contrariamente a quello che speso si crede, non è sempre estemporaneo , dettato da un impulso immediato ed incontrollato. E’ il frutto, il più delle volte, di una lenta elaborazione, di una conflittualità interiore, che affonda le sue radici lontane ed è strettamente connesso al cambiamento nel tempo dei ruoli familiari e sociali dei membri dei nuclei di appartenenza.
Le ragioni per cui la violenza scaturisce sono cambiate. Mentre ieri si trattava di fenomeni legati al degrado, oggi, la violenza, non risparmia nessuna classe sociale e nelle famiglie nucleari, dove la maternità non è più assistita dalla famiglia allargata, la donna è lasciata sola sotto il peso della cura dei figli, spesso schiacciata dalla vita quotidiana, dalla delusione delle sconfitte,dall’incapacità di realizzare un progetto individuale soddisfacente, in una cultura imperante dove si pretende che sia anche una riuscita professionista e magari sfoggi muscoli da culturista. Cambiamenti culturali dai quali possono scaturire atrocità che fanno paura ma che non devono distogliere dal dato più vero e reale. Semplicemente essa perde il ruolo fondamentale di guida e di contenitore umorale e appare in tutta la sua fragilità, nella sua incapacità di svolgere un compito che è quello di lenire le ferite provocate da una vita non al passo con i ritmi sempre più vorticosi di una società che muta continuamente pelle.
Basta poi ascoltare le testimonianze dei vicini e conoscenti che sono tutti pronti a giurare sulla sanità mentale della madre, sulla devozione verso la famiglia, sulle cure amorose verso il bambino, sul carattere affettuoso e premuroso, per farsi un’idea di quanto possa essere “accattivante” una situazione come questa. Vengono infatti messi in moto i sentimenti comuni, la solidarietà sociale, la coscienza collettiva, la capacità culturale di lavorare ed elaborare il delitto e si viene quindi a creare una empatia di sentimenti, una “simpatia” del dolore. Ma sulla scena non c’è solo Medea che “recita” o il Coro che dispensa giudizi, ci sono anche altri attori: i familiari dell’omicida. Non esiste legge e non esiste supporto psicologico che li possa tutelare dai loro demoni interiori che si scatenano all’indomani del fatto sanguinoso e la situazione “si complica” nel momento in cui le donne ritornano in seno alla famiglia. Dopo un primo atteggiamento di protezione e collaborazione incondizionata, spesso comincia a serpeggiare la diffidenza e la paura che la madre possa essere recidiva. Il reinserimento sociale è infatti estremamente difficile e lo stigma che caratterizza una donna sarà tale fino alla sua morte. Quando avvengono fatti delittuosi come la morte di un bambino, si spezzano i legami familiari, si frantuma il concetto stesso di famiglia come ricovero, protezione, si sradica il senso comune del vivere quotidiano che viene dalla famiglia e si annulla il significato culturale della socializzazione primaria.

Tags: InfanticidioMedeapazzia

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