Quando penso agli artisti di ogni epoca, non posso fare a meno di immaginarli come esseri speciali, al limite dell’umano o forse meglio super-umani per la loro sensibilità percettivo-sensoriale, che gli fa vedere oltre il visivo, ciò che l’organo vista non può dimostrare, ma che non può neanche negare, essi riescono a sentire suoni impercettibili anche agli animali perché, non sono reali, sono i sussurri, che circondano tutti noi ma che soltanto loro percepiscono, ma la cosa più strabiliante è rendere materiale tutto questo nelle loro opere. Questo ci sbalordisce e ci fa annuire a testa china per lo strapotere della loro personalità.
Infatti, da sempre, gli artisti sono stati ammirati per la loro abilità, temuti per il loro genio creativo, e per la grande capacità di conoscenza dell’uomo e della sua esperienza interiore.
Questi artisti gareggiano con gli dei nella mitologia con Prometeo, creatore dell’uomo, e con Efesto e Dedalo, creatori di automi fatti a somiglianza dell’uomo.
I pittori antichi, mi riferisco ai bizantini e medievali, sono stati pregevoli alchimisti catturando la luce e il colore, mischiando terre e oli con tanta armonia da rendere vivi tutti gli esseri della natura e reali tutti gli “accidenti” (1).
Osservando con rispetto la celebrazione alchemica di questi antichi artisti, è evidente il riferimento al rito sacrificale, in onore della vita che nel quadro si ri-crea.
«Al centro, il più abbondante dei colori sulla tavolozza, si spremeva il bianco, … estratto dal piombo consumato con vapori d’aceto, e tenuto quindi per mesi dentro un vaso sigillato immerso nel letame che fermentando ferveva in maniera costante. La biacca così ottenuta era la base d’ogni coloritura, il fondo secco e freddo, saturnino e puro… » (2).
Questo colore saturnino che porta già in sé il simbolo della bile nera di Saturno, della melanconia, che stranamente colpisce sensibilmente periodi della vita di molti artisti è, come si nota, alla base di ogni opera e sta al pittore saperlo impartire con parsimonia là dove la luce incontra la materia e dove quindi essa sta per sciogliersi e svanire, come disse Melville, porta in sé lo sgomento della morte.
«Così il pensiero della morte, sommo refrigerio e prosciugante consolazione, oltre che saturnina astringenza, depura l’uomo e avvalora ogni sentimento a cui si accosti o mescoli» (3).
L’affinità col sacrificio è palese da questo spremere la terra fin dalle più profonde viscere estraendo la fuliggine: il carbone per il nero, le terrecotte, il ferro bruciato, lo zolfo e il mercurio per i rossi, la limonite “l’argentea argille” e il rame per i gialli, i lapislazzuli, la silice e la malachite per gli azzurri e i verdi; nei vari procedimenti alchemici ci sono impasti con tutto quello che c’è di più organico sulla terra: ossa, escrementi, urine, grasso animale ecc… e il tutto gestito come nel più religioso dei rituali.
Questi pittori sapevano bene che usando il rosso usavano il sangue della Terra in cui si cela il colore secco marziale del ferro che congiunto con l’aria dà vita sia all’humus della Terra che all’uomo.
«Quando il pittore intingeva il pennello nel rosso, sapeva di evocare e invocare Marte. Il Sole sceso sottoterra come arsenico o antimonio era convocato sul mondo della tavola o tela quando il pittore pescava nel giallo.
Poiché l’evocazione dell’archetipo alchemico giusto era tutto, il significato aveva il primato sulla labile realtà significante.
Dipingere con colori già preparati è come adottare i figli invece di concepirli e cuocerli nel grembo. La cura posta nel cercare i pigmenti impediva di scordare l’origine della loro natura, e quindi l’archetipo.
La mano del pittore guidata dall’occhio, dal naso e anche dalla lingua, gli aveva trovato e allestito le tinte che poi versava sulla tavolozza.
Egli aveva visto calarsi Saturno, Marte, Venere metallici, e talvolta Giove e il Sole metallici per i fondi d’oro. Come avrebbe altrimenti sentito,… che stava incarnando forze invisibili comunicando vita d’alto, ovvero estraendo le forze supreme della tenebra del sottosuolo, facendole ri-circolare sulla terra e il cielo?
L’icona Bizantina era composta a partire dalle alchimie dei colori come un’azione sacrificale che trasmutava i metalli in essenze veraci e fantastiche» (4)
Da allora gli artisti inconsciamente hanno continuato il rito sacrificale anche se “adottando” i colori invece di concepirli con le proprie mani, ma continuando per esempio a trattare le tele, le tavole o le carte con colle, ricavate da ossa di coniglio o da resti di pesce e mischiate con gesso o anche terra, sabbia, granelli di caffé e ancora miele, sapone, cera, farina, ecc.
Ma c’è insito nell’artista un sacrificio maggiore che inconsciamente è intrecciato con le sue azioni, del vivere per creare, il desiderio di creare lo invade, l’artista crea sotto i nostri occhi qualcosa che prima era spirito ed ora invece possiamo vedere e toccare, ha dato forma allo spirito; «… il suo privilegio è d’immaginare, di ricordarsi, di pensare e di sentire per forme… noi non diciamo che la forma è l’allegoria o il simbolo del sentimento, ma che è la sua attività propria, ch’essa agisce il sentimento… l’arte non s’accontenta di rivestire d’una forma la sensibilità, ma che risveglia nella sensibilità la forma. … le forme trasfigurano gli atteggiamenti e i movimenti dello spirito più di quanto non li specifichino…
Sono più o meno intelletto, immaginazione, memoria, sensibilità, istinto, carattere: più o meno vigore muscolare, densità o fluidità del sangue.
Pensano con tutto un peso che non è vano perché è quello della materia dell’arte» (5).
La sostanza dell’arte creata è la vita stessa del suo creatore.
(1) Termine usato negli scritti del ‘500 riferito a piogge, venti, tempeste, nebbia e quant’altro in pittura
(2) Zolla E., Le meraviglie della natura, Marsilio, Venezia 1991, p.333.
(3) ivi, p.334.
(4) ivi, p.335, 337, 338.
(5) Facillon, H., La vita della forma, Einaudi, Torino, 1987, pp.74-78