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Van Gogh:la sua pazzia, la sua terapia e il suo rito sacrificale

by Redazione
5 Novembre 2018
in Cultura
Van Gogh:la sua pazzia, la sua terapia e il suo rito sacrificale
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In Van Gogh c’è un artista dichiarato pazzo, e studiato, analizzato, martorizzato, come dice Artand fino a costringerlo al suicidio.
Nel saggio: Van Gogh suicidato dalla società, Artand si scaglia ferocemente contro la “psichiatria inventata”, dice, proprio per sviare le acute indagini e riflessioni di queste menti caparbie che non rinunciano mai alla propria verità. Qui Artand traccia dei ritratti splendidi di Van Gogh, sia come mente filosofante che come pittore-pittore, mette proprio in evidenza la carnalità delle tele in cui traspare un corpo martire che si contorce dalle sofferenze.
«Graffiati dal chiodo di Van Gogh, i paesaggi mostrano la loro carne ostile, la collera delle loro viscere sventrate, che una strana forza ignota sta però metamorfizzando. … sentieri sinuosi costellati di gruppi d’alberi color carminio, strade incassate dominate da un tasso, soli violacei volteggianti su covoni di grano d’oro puro, … Non è normale vedere un uomo con nel ventre, il colpo di fucile che lo ha ucciso, ficcare su una tela dei corvi neri con al di sotto una specie di pianura livida forse, vuota di ogni cosa, in cui il colore feccia di vino della terra si scontra ossessivamente con il giallo sporco delle messi. … nessuno fino ad allora aveva mai fatto come lui della terra quel panno sporco, strizzato del vino e del sangue assorbito. Van Gogh ha liberato i suoi corvi come i microbi neri della sua milza da suicida»(1).
Se la magia dell’arte coincide in parte con la capacità dell’artista di organizzare il caos delle sue emozioni in forma espressiva, Van Gogh c’è pienamente riuscito, e questo, dipingendo da pittore, come dice Artand, nelle sue piccole tele da “quattro soldi” si vede la pennellata pastosa appena raccolta dal tubetto, se ne vede l’impronta del pennello e questa, a forma di virgola, si divincola come una fiamma, e respira come un polmone, prende le sembianze di un girasole, di un paesaggio, di un volto, ma dall’interno questa fiamma li tortura, li punisce per chi sa quali peccati, li sacrifica per giungere a una pace che è solo transitoria». Ma, continua Artand «chi non prova il bruciore della bomba e le vertigini soffocate non è degno di vivere… Il corpo sotto la pelle è un’officina surriscaldata, e di fuori, il malato brilla, risplende da tutti i pori dilatati. Così un paesaggio di Van Gogh a mezzogiorno»(2).
Artand condivide con Van Gogh l’esperienza e i luoghi della pazzia, del contatto con gli psichiatri e soprattutto le umilia­zioni che un uomo del suo genio doveva subire come la chiu­sura obbligata delle “valvole del pensiero” con una puntura. Vedeva Van Gogh come la sua immagine allo specchio, ne era in un certo senso ossessionato, vedeva lo sguardo da “ex-ma­cellaio” che sbucava dal buio e lo fissava, «vedo, mentre scrivo queste righe, il volto rosso insanguinato del pittore ve­nire verso di me, in uno sfondo di girasoli sventrati»(3).
E Artand, trafitto dallo sguardo di Van Gogh, da quegli occhi lucidi che dal quadro lo scrutano, lo spiano in modo interro­gativo non solo come un genio-pittore ma come un filosofo che vuole “spogliare l’anima”, e mettere a nudo tutti i “sotter­fugi dello spirito”, Artand capisce che quell’uomo “ha dovuto morire”.
«Ha dovuto, dico, morire, … Nel fondo dei suoi occhi quasi depelati da macellaio, Van Gogh si dedicava senza posa ad una di quelle operazioni di pura alchimia che hanno preso la natura per oggetto ed il corpo per marmitta o crogiolo… Van Gogh era giunto a quello stadio dell’immunimazione, in cui il pensiero disordinatamente rifluisce di fronte alle scariche invadenti, e… dove pensare non è più usarsi… e dove non resta che ammucchiare corpi. … Ci sono giorni in cui l’animo percepisce così orribilmente d’essere in un vicolo cieco, che l’idea di non poter più avanzare lascia storditi.
… Ho trascorso io stesso nove anni in una clinica per pazzi e non ho mai avuto l’ossessione del suicidio, ma so che ogni conversazione con uno psichiatra, il mattino, all’ora della visita, mi faceva venire la voglia di impiccarmi, rendendomi conto che non avrei potuto strozzarlo»(4).
Quando Van Gogh si suicida il 29 luglio 1890 le sue opere ven­go­no osservate, analizzate, vivisezionate accuratamente come se fatte di carne, della carne malata dello stesso artista che contiene in sé il germe, il virus letale della sua stessa pazzia.
Forse, Van Gogh dipingendo cercava disperatamente di “espellere da sé” di liberarsi da questo virus, dal male che lo affliggeva e quando non vi riusciva, maltrattando, ferendo e tagliando il suo corpo-pittura, allora passava al corpo-creatore, maltrattandolo: inghiottendo i suoi stessi colori e bevendo essenza di trementina o tenendo la mano sul fuoco di una candela fino a quando la pelle non si bruciava completamente oppure tagliandolo, come infatti tagliò il suo stesso orecchio con un rasoio, sacrificandolo con un antichissimo rito in onore della libertà e della pace e quando questo non bastò sacrificò tutto il suo corpo, ma non si vuole sminuire la sua grandissima opera pittorica considerandola una terapia, vuole anzi esaltarla perché ha effettivamente creato qualcosa a “sua immagine e somiglianza” un essere immortale che parlerà sempre di lui.
Un essere-pittorico che ci racconterà i suoi complessi d’infe­riorità, le sue gelosie o anche le sue attrazioni più segrete nei confronti di Gauguin; semplicemente dipingendo due sedie, entrambe vuote, ma che contengono entrambe oggetti, colori significativi, una candela accesa si contrappone a una pipa spenta, due libri colorati a un cartoccio di tabacco, una pol­troncina a una sedia contadina, basta così poco per suscitare dei fantasmi che aleggeranno per sempre in due quadri.
«… la luce del candeliere vibra, la luce del candeliere acceso sulla poltrona di paglia come la respirazione di un corpo fremente davanti al corpo di un malato addormentato»(5).
Ci racconterà le sue segrete aspirazioni a essere “un sole in tutta la sua gloria” disillusa dalla tormentata sensazione di essere un girasole appassito e morto ma nel suo piccolo, anzi piccolissimo, è sempre un sole.
Scrive Bataille: «i rapporti tra questo pittore (che s’identifica successivamente con delle fragili candele, con dei girasoli, ora freschi e ora appassiti) e un ideale di cui il sole è la forma più folgorante, apparirebbero pertanto analoghi a quelli che gli uomini intrattenevano un tempo con gli dei… la mutilazione interverrebbe normalmente in questi rapporti con una specie di sacrificio; rappresenterebbe l’intenzione di assomigliare perfettamente a un termine ideale, connotato abbastanza genericamente nella mitologia, come divinità solare, tramite la lacerazione e lo strappo delle proprie parti»(6).

Note:

1. Artand, A., Van Gogh suicidato dalla società, cit. in Artand A., Bataille C., Il mito Van Gogh, Pierluigi Lubbina editore, pp.67,68,69.

 2. ivi, pp.87-88.

3. ivi, p.82.

4. ivi, p.76.

5. ivi, p.71.

6. Bataille, C., La mutilazione sacrificale e l’orecchio reciso di Vincent Van Gogh, in op. cit. (7), p.49.

Tags: artepitturavan gogh

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