Atti di bullismo, accoltellamenti allo stadio, lo strangolamento all’uscita della discoteca, le ragazze violentate in mille modi…raffiche di cronaca che rumoreggiano sulla coscienza.
Le pagine di cronaca sono spesso dedicate, con grande enfasi, a persone colpevoli di azioni gravi e lesive degli altri, con modalità spesso particolarmente crudeli. Ciò che accomuna le diverse storie è la quasi esclusiva attenzione per il colpevole e la quasi totale indifferenza per le vittime. Del primo ci viene raccontata la storia, ci vengono fornite foto, dichiarazioni ed interviste in modo da imprimere il loro volto e nome anche nella mente della persona più distratta; l’immagine delle seconde, invece, tende a sfumare in un grigiore uniforme, in cui volti e storie si confondono e si smarrisce ogni identità.
Questo fenomeno è molto critico dal punto di vista psicologico, perché sembra abituare progressivamente all’indifferenza nei confronti della vittima, come se la tendenza innata dell’uomo a provare pietà si assopisse lentamente e venisse rimpiazzata da spinte di natura egocentrica ed aggressiva.
La celebrazione del colpevole può essere prima di tutto ricondotta all’esasperata inclinazione alla spettacolarizzazione propria dei mezzi televisivi e della carta stampata, nella quale il carnefice è molto più attraente della vittima. Ma la spettacolarizzazione da sola non basta a spiegare la tendenza all’ esaltazione del colpevole. La psicologia sociale ha da tempo evidenziato che l’identificazione con la vittima può essere ostacolata da vari meccanismi di difesa, che hanno il fine di proteggerci dall’idea angosciante che la vittima sia stata colpita per caso e che la stessa cosa potrebbe succedere anche a noi. Ad ognuno di noi fa comodo la confortante idea che il male non ci possa colpire se non andiamo a cercarcelo e così si fa strada l’idea che la vittima sia in qualche modo responsabile per quello che le è capitato. Questa valutazione è particolarmente esplicita nei casi di violenza sessuale, quando è facile insinuare una corresponsabilità della vittima, che di certo vestiva in modo indecente, aveva assunto un atteggiamento equivoco e così via.
Le vittime, insomma, spesso non piacciono molto e l’identificazione è spesso ostacolata dal timore di diventare come loro. Ma nei casi di cronaca recenti si trovano processi difensivi più insidiosi e pericolosi: siamo in pieno disimpegno morale. Il termine, coniato da Albert Bandura, include una varietà di meccanismi di ‘disattivazione selettiva’ della coscienza. Sono ad es. la ‘giustificazione morale’ (fare appello a principi superiori), il ‘confronto vantaggioso’ (paragonare un’offesa con un’offesa ancora più grave), il ‘dislocamento della responsabilità’ (su un’autorità o soggetti diversi) o ‘diffusione di responsabilità’ (una sorta di divisione collettiva della colpa). Tali meccanismi consentono di realizzare una scissione tra la sfera dei valori che si continua a professare e le condotte che si pongono in atto in evidente contrasto con i primi. Consentono di separare la trasgressione dalla riprovazione, e di conseguenza di preservare il proprio sistema di valori e la concezione di sé come persona degna, pur agendo in modi del tutto indegni. Il disimpegno morale è in genere utilizzato per proteggere la propria immagine anche in presenza di azioni fortemente immorali, ma il meccanismo è lo stesso anche nei confronti di azioni altrui: si ha una assoluzione indiretta o preventiva. Ecco allora che l’esaltazione del colpevole serve a giustificare le proprie condotte aggressive e violente. Non importa se non commetteremo mai stupri o omicidi, ma se possono essere accettati ed assolti i delitti efferati, a maggior ragione possono essere assolte le ‘nostre’ piccole violenze e cattive azioni quotidiane.
Bisogna disinnescare tali meccanismi, smascherandoli e consentendo una maggiore vigilanza, sia individuale che sociale. In particolare la capacità di autoriflessione è condizione essenziale per accedere alla sfera dei valori ed orientarla in accordo con i propri standard morali. Anche se dentro ognuno di noi c’è un piccolo Caino da giustificare e proteggere, dobbiamo cercare di non perdere di vista l’elementare verità che chi è stato ucciso è Abele e chi ha ucciso è Caino.