Domenica 29 marzo, ore 17,30. Il sole ha regalato una giornata ridente. Meno male. Anche perché dopo tanta pioggia non se ne poteva più. Finalmente, complice anche l’introduzione dell’ora legale e l’allungamento delle giornate, il clima primaverile sembra fare capolino pure dalle nostre parti. Tutto sembra filare liscio. Eppure Ragusa, ormai, nasconde sgradite sorprese ad ogni angolo. A testimonianza di come il tessuto sociale si stia disgregando ogni giorno, sempre di più. La città sembra volere nascondere sotto il tappeto i problemi, come si fa con la polvere del salotto buono. Che però resta sempre lì.
E quando meno te lo aspetti emerge con tutto il suo fastidio. Per non parlare della preoccupazione che certi episodi ingenerano, facendo riflettere sul fatto che le gravi situazioni sociali, ormai, non lambiscono più la nostra città, ma la investono in maniera diretta, come un pugno nella stomaco. E così Ragusa, dopo avere celebrato la domenica delle Palme, si riscopre, a metà del pomeriggio di quello stesso giorno, a dovere fare i conti con una realtà scomoda. Un’altra vagabonda, un barbone al femminile, che non sa dove andare. E che al riparo di occhi indiscreti sceglie una panchina in pietra di via Carlo Alberto Dalla Chiesa, la cosiddetta Panoramica del parco di chessariana memoria, quella che, per intenderci, sorge tra piazza Carmine e il prolungamento di via Natalelli, sotto ponte San Vito, e che getta lo sguardo alla parte inferiore della vallata Santa Domenica, per scacciare un pisolino.
Un luogo che, nelle intenzioni dell’ideatore, sarebbe dovuto servire per raccogliere e aggregare le famiglie. Facendo loro trascorrere qualche ora spensierata. E che, invece, negli anni, oltre a dare asilo ai vandali e a qualche drogato, non ha mai saputo spiccare il volo. Ma non è del degrado riguardante il sito, invero tenuto in condizioni tutto sommato accettabili, ciò di cui vogliamo parlare. Bensì dell’ennesima storia di una senza tetto che, noncurante di tutto e di tutti, non ha trovato di meglio da fare se non sistemarsi in quell’area per riposare un po’, senza neppure una piccola coperta a fornire un minimo di ristoro (sebbene ci fosse il sole, il vento cominciava a dare qualche timido segnale, rinfrescando, e abbastanza, la temperatura). Catrina, questo è il nome dell’interlocutrice, si accorge di essere oggetto di attenzione. Apre gli occhi, ne stropiccia uno, poi si mette a sedere. Chiede: “Che cosa volete? Perché non fare me dormire?”.
Le spieghiamo che non è nostra intenzione disturbarla. Anzi, nel caso in cui avesse bisogno di qualcosa, siamo pronti a venirle incontro. “No, non ho bisogno niente” si schermisce. Poi, con un sorriso senza denti spiega: “Però se tu avere cento euro in tasca non mi offendo”. Le chiariamo che non è questo quello che intendevamo quando le abbiamo chiesto se aveva bisogno di qualcosa. Però, tanto basta per rompere il ghiaccio. E le manifestiamo la nostra curiosità: perché ha deciso di dormire in quella zona di Ragusa, lontano da tutto e da tutti, a contatto con la natura sì, ma in una situazione oggettivamente difficile? “Sono stata tanti anni a Vittoria, nelle serre – attacca – ho raccolto pomodori. Ora, però, non c’è più lavoro. E io ho perso mio impiego. E’ da mesi che girovago senza meta. Tornare a casa? In Romania? No, non se ne parla. Quando sono venuta qui ho rotto rapporti con mia famiglia. E non li ho più riallacciati. Per noi è questione di orgoglio. Non c’è ma che tenga. Cerco di trovarmi qualche lavoretto e di andare avanti”. E per dormire? Come si fa?
“Ogni tanto vado alla stazione – continua – mi preparo un giaciglio da quelle parti e nessuno disturba. Nei primi tempi una connazionale mi aveva ospitato per qualche giorno. Ma non potevo mica stare sempre da lei. E mi sono decisa a fare fagotto e ad andare via. Sì, sono disperata. Non so che fare. Non so cosa mangiare. Sono un’anima persa. Ho bussato non so più a quante porte. Ma la crisi non dà nulla per sostenere chi sta bene. Pensate a me che sono derelitta. Non so fino a quando potrò andare avanti così. Le mie cose? Le tengo nascoste, in una zona di Ragusa che non vi rivelo per ovvi motivi. Sono di fibra forte. Se mi ammalo, però, sento che questa sarà la volta buona”. Catrina ha ormai dimenticato che cosa significa sognare. La sua è una lotta per la sopravvivenza, giorno dopo giorno. La lotta per conquistare un tozzo di pane. Già un piatto caldo per lei sarebbe una conquista eccezionale. E pensare che tutto questo accade nella civilissima Ragusa.