Il Comune di Comiso è stato condannato dalla Cassazione a risarcire con 75mila euro una signora di cui aveva rivelato il “passato da uomo”. La suprema Corte, nel motivare la sentenza, chiarisce che gli uffici anagrafici dei Comuni devono proteggere “con tecniche di cifratura o con codici identificativi che permettano l’identificazione dell’interessato solo in caso di necessità” tutti i dati sensibili che riguardano il cambiamento di sesso delle persone: non si deve rendere nota la “rettificazione di sesso” trattando con sciatteria o malizia i dati di chi ha cambiato genere. Ad avviso dei supremi giudici, soprattutto in questa epoca di “incessante progresso tecnologico” che rende possibile “inedite, per il passato del tutto impensabili, e talora gravissime aggressioni agli aspetti più intimi della personalità”, occorre “necessariamente l’individuazione di più efficaci ed adeguate difese” del diritto alla riservatezza.
Tra queste, gli ermellinì indicano la cifratura e i codici identificativi come mezzi tramite i quali gli uffici anagrafici devono proteggere la ‘storia delle persone che hanno cambiato identità sessuale e quindi il nome. Per questo, la Suprema Corte – con la sentenza 9785 – ha confermato la condanna al risarcimento a carico del Comune di Comiso che senza oscurare i dati della rettifica di sesso aveva mandato tutto il faldone relativo a una donna che si era trasferita in un altro comune siciliano rendendo in tal modo noto il fatto che il suo sesso originario era quello maschile. Con questo comportamento il comune casmeneo – rileva la Cassazione – aveva determinato “una indebita diffusione di dati supersensibili dei quali, nel Comune ricevente, erano venuti a conoscenza terzi che avevano variamente attentato alla riservatezza” della donna la quale ha fatto presente di “aver subito gravi pregiudizi alla salute psichica, alla vita coniugale e alle relazioni in ambiente lavorativo”. Il Tribunale di Ragusa, il sette febbraio del 2011, aveva condannato il Comune di Comiso al risarcimento dei danni quantificandoli in 75mila euro. Contro il verdetto, l’amministrazione comunale ha fatto ricorso, senza successo, alla Suprema Corte.
“Spettava al Comune – spiegano gli ermellini – provare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno” e, inoltre, come osservato anche dal tribunale, “manca la prova che a determinare l’evento” della diffusione dei dati sensibili, “quale fattore sopravvenuto da solo sufficiente ad escludere o ad interrompere il nesso eziologico, sia stata una causa efficiente estranea e del tutto autonoma rispetto al comportamento del Comune di Comiso”. L’amministrazione comunale, soccombente in Cassazione, è stata condannata anche a pagare 7200 euro di spese processuali.