Nota della segreteria Flai CGIL, a firma di Salvatore Terranova ed Emanuela Cappellini, in tema di comparto agricolo:
Coniugare innovazione e tradizione al di là dei contributi pubblici
La crisi del comparto agricolo che da tempo colpisce il nostro territorio è una crisi realmente seria e grave. Non risulta però a memoria di uomo che ci sia stato un momento nel quale tale comparto non fosse di fatto toccato, anche solo per una piccolissima frazione di tempo, da difficoltà e da insidie che ne condizionavano gli esiti e i risultati. Parlare, infatti, di agricoltura nel nostro territorio ha da sempre significato, in primo luogo, puntare l’attenzione sul fatto che detto comparto era in sofferenza.
Anche se oggi ha evidenti elementi di veridicità asserire che la nostra agricoltura sta attraversando una terribile crisi, che sta sprofondando l’architrave su cui poggia la parte più consistente del nostro tessuto economico, si ritiene che non sia stata e non venga fatta fino in fondo l’analisi che l’importanza che riveste il settore necessita.
Per primi sono gli operatori, gli imprenditori agricoli, piccoli, medi e grandi, a dare l’idea di non essere riusciti a dotarsi di un piano di organizzazione del comparto in grado di porlo in un contesto non solo di maggiore competitività rispetto ai mercati, ma soprattutto di elaborare quelle contro-misure per meglio affrontare le storture insite nella attuale organizzazione della filiera e della grande distribuzione organizzata, che in questi anni hanno assunto un potere quasi assoluto, piegando alle loro condizioni quasi tutto il mondo produttivo agricolo.
L’unico elemento rivendicativo, quasi se fosse il solo, che pare emergere nelle manifestazioni appalesanti la crisi settoriale è per lo più richiesta, peraltro legittima, di contributi pubblici per i danni causati da agenti atmosferici, in un comparto – è bene dirlo – che è quello beneficiante dei maggiori incentivi e contributi, non solo previdenziali e contributivi, che altre realtà produttive, anch’esse importanti, non hanno o hanno in misura molto inferiore.
Infatti, pur al cospetto di una crisi così lacerante, dall’interno del settore non è ancora emerso, con la necessaria determinazione, un modello organizzativo del comparto che dia allo stesso quella capacità di superare le difficoltà legate al processo di commercializzazione dei prodotti nel contesto dei mercati internazionali e locali e le adeguate attrezzature di visione e di cultura imprenditoriale in grado di condurlo ad un assetto funzionale, adeguato alla sua condizione di qualità rispetto a prodotti che nel mercato si affermano anche se di qualità nettamente inferiore a quella dei nostri.
Non ha preso piede la consapevolezza dell’importanza dell’unirsi e fare squadra per affermarsi in un mondo della produzione e della sua organizzazione completamente mutati nella fisionomia rispetto al passato e distorto da meccanismi illegali di controllo; deficienza questa che fa il paio con la noncuranza e la sufficienza con cui negli anni i governi nazionali e regionali hanno omesso di affrontare con dovuta lungimiranza le problematiche del comparto, preferendo la moda dei contributi al disagio di pensarne e determinarne un futuro all’interno di processi complessi rispetto ai quali gli imprenditori, da soli, senza un aiuto, vengono completamente surclassati.
La nostra realtà agricola imprenditoriale è molto variegata. Vede intrecciarsi realtà imprenditoriali grandi con altri soggetti piccoli e medi. Le prime sono riuscite, grazie alla loro capacità produttiva e alla qualità dei prodotti, ad affermarsi nel mondo, ottenendo risultati notevoli nella capacità di esportare, coniugando qualità e rispetto delle norme anche in materia di lavoro. E, infatti, nelle aziende di grandi dimensioni dove siamo presenti come rappresentanze sindacali registriamo la quasi applicazione dei contratti vigenti e in molti casi il rispetto delle tariffe previste per i lavoratori. Le tante altre realtà, dalle piccole e alle medie, salvo le dovute eccezioni, configurano un mondo a sé stante. L’elemento caratterizzante la loro organizzazione produttiva è imperniato sulla necessità di fronteggiare i costi della produzione e il disagio della concorrenza e dei perversi meccanismi dei mercati con la contrazione del costo del lavoro. Pratica che si sostanzia in forme di assoldamento di manodopera italiana e straniera attraverso un parallelo mercato di reclutamento del tutto illegittimo e in cui, a fronte di buste-paga formalmente perfette, si riscontrano in realtà paghe molto al di sotto dei parametri dei contratti collettivi e la diffusa consuetudine di inserire in esse meno giornate di lavoro rispetto a quelle realmente fatte.
Riscontriamo nella nostra quotidianità essere umani, in maggioranza stranieri, per il quali sostentarsi con il lavoro nelle aziende agricole è diventato un incubo reale!
Lavorare oggi in certe aziende agricole del ragusano, alla stregua di altre situazioni di altri territori, per i lavoratori italiani, immigrati e per quelli comunitari rappresenta un tuffo in modalità di impiego e di condizione sociale che rimandano a contesti di società lontani nel tempo.
Riscontriamo il diffondersi di rapporti di lavoro privi del tutto di garanzie e di sicurezza, in cui la paga giornaliera, per 10-12 ore di lavoro, in moltissime situazioni non supera le trenta a euro, comprese le domeniche e le festività. Così come emergono a macchia di leopardo condizioni di lavoro in nero, vissute in una condizione di totale vulnerabilità e di precarietà, che mettono la vita di questi lavoratori alla stregua di merci.
La crisi del comparto c’è e si fa sentire, ma non può costituire motivo giustificante di quanto avviene in tante aziende agricole, dove si vorrebbe far passare l’assunto che, essendo questa la condizione del comparto, alla manodopera bracciantile non può essere garantito quanto previsto dalla contrattazione collettiva, ma retribuzioni parametrate alla contingente condizione economica dell’azienda in cui essa si trova ad essere impiegata; assunto questo che trova spazio paradossalmente anche in datori di lavoro di aziende che non sono state toccate dalla crisi, che anzi in tale momento sono riuscite ad incrementare il volume degli affari, tale che in certi momenti viene da supporre che la crisi per alcuni sia diventata un pretesto solo apparente per imporre condizioni derogatorie rispetto a quelle previste dei contratti collettivi.
Questo è il messaggio che viene veicolato quando cerchiamo di aprire un confronto con le aziende dove sono impiegati braccianti ed è un messaggio che ha una virulenta gravità, perché è una concezione che si vuol far passare come visione obiettiva dei fatti e che, in realtà, viene addotta da alcuni per giustificare condizioni al limite della tollerabilità sociale e legale.
Rispetto a ciò, diventa sempre più importante il ruolo non solo dei sindacati dei lavoratori ma anche delle associazioni datoriali. La Flai in questa direzione si è spesa e intende ancora spendersi, conscia della importanza che questo comparto ha per la parte di territorio in cui viviamo e perché crede nella possibilità che il confronto con le parti datoriali può costituire un passo significativamente in avanti per ricomporre lacerazioni che investono uomini, territorio, comunità e la consapevolezza di chi oggi siamo nel rapporto col mondo.