La bioetica è un ambito interdisciplinare che, cioè, abbraccia una vastità di discipline e che non si può limitare solo a un aspetto. Alcune tra queste sono state affrontate, ieri sera, nel corso dell’incontro-dibattito sul tema “Oltre il fine vita, la dignità del morire”, promosso, nell’auditorium “Saro Digrandi” dell’istituto Galileo Ferraris, dall’ufficio diocesano per la Pastorale della salute nel contesto delle iniziative per la Giornata mondiale della vita. L’iniziativa, voluta dalla diocesi di Ragusa, è stata organizzata in collaborazione con gli uffici per la Pastorale della famiglia, la consulta diocesana aggregazioni laicali, l’ufficio per l’insegnamento della religione cattolica, l’ufficio per la Pastorale della cultura e il Centro di aiuto alla vita. I relatori, moderati dal direttore dell’ufficio diocesano per la Pastorale della salute, don Giorgio Occhipinti, sono stati Rosario Giurato, dirigente medico della Rsa di Comiso, e Giuseppe Di Mauro, docente di teologia morale della scuola teologica di base e vicedirettore dell’ufficio per la Pastorale della cultura. “Durante il percorso assistenziale al paziente terminale – ha spiegato Giurato – sempre più ci si prende cura della persona nella sua globalità, quindi sul piano psicofisico ma anche spirituale. E’ un percorso di accompagnamento che si porta avanti per far sì che la condizione del paziente verso la fase conclusiva della sua vita possa essere il più serena possibile, senza traumi. Nell’ambito di questo percorso di accompagnamento, diventa necessaria l’attività di comunicazione con lo stesso paziente e i suoi familiari, indispensabile, quindi, una interazione attiva e bilaterale. Sappiamo tutti bene che, a seconda del paziente che ci troviamo di fronte, può cambiare la modalità di comunicazione. E’ un luogo comune ritenere che chi sa di essere un paziente terminale pensi a sopprimere la propria vita. Dobbiamo, piuttosto, superare questo modo di concepire determinate situazioni”. Di Mauro, invece, ha chiarito che “la schizofrenia di pensiero del periodo postmoderno (dal naturalismo al biocentrismo, all’antropocentrismo) non aiuta a ordinare le idee sulle questioni che hanno a che fare con la vita umana. Eppure – ha aggiunto – ci troviamo di fronte a forme di schizofrenia del pensiero che, oggi, hanno una evidenza molto forte nella società. Potremmo dire che, allo stato attuale, abbiamo aumentato le capacità di intervenire sulla materia, perdendo, però, al contempo la conoscenza degli scopi. Mai come oggi che l’uomo possiede una conoscenza particolarmente vasta su vari ambiti, il fine per cui stiamo facendo tutto questo diventa ancora più misterioso. Insomma, stiamo sviluppando una conoscenza di tipo scientifico e tecnico a scapito di una conoscenza interiore più profonda. I medici, con la tecnologia con cui hanno a che fare, producono spesso mali interiori che la medicina stessa si trova poi a dover curare. Sembra che le conseguenze culturali dell’ipermedicalizzazione della persona abbiano impoverito gli ambiti sociali e familiari. Un tempo la malattia veniva affrontata assieme, in famiglia. Adesso, invece, l’uomo perde di vista il significato e si concentra più sul funzionamento. Non siamo, di certo, in uno stato etico ma in uno stato di diritto che, però, non ha in sé la fonte dell’etica. Ed ecco perché c’è bisogno di organi consultivi come il comitato di bioetica. Oggi, poi, si parte da un caso singolo per produrre una norma che diventa generale ma si scavalca la politica e si scavalca anche la coscienza delle persone. Nei momenti in cui si devono prendere determinate decisioni non si può fare una legge ferrea. Occorrono margini in cui deve entrare in campo quello che noi chiamiamo il giudizio pratico, la capacità di valutare in quella situazione la scelta migliore da fare. Ed è una scelta che non si può compiere da soli”. Tra gli interventi, anche quello di Antonella Battaglia, responsabile dell’hospice oncologico del Maria Paternò Arezzo e vicedirettore dell’ufficio diocesano per la Pastorale della salute. “In un hospice – ha spiegato Battaglia – vediamo arrivare pazienti che non sanno neppure di cosa sono malati. E in questa grande confusione si deve fare il possibile per cercare di aiutare chi soffre anche con la buona parola. E’ questa la scommessa più importante per tutti gli operatori sanitari”.