di Maria Strazzeri
“Un’avanguardia che mescola insurrezione e legge, utopia e regole”.
Nata negli anni ‘50 si è imposta a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, l’Op Art è una corrente artistica astratta dove il concetto di illusione la fa da padrone. Spesso inclusa nel più grande movimento dell’arte cinetica, essa approfondisce la sensazione del movimento attraverso l’accostamento di soggetti astratti, forme geometriche e colore. Oggi quest’arte è tornata prepotentemente in auge, come molte mode del periodo vintage. Coinvolgere l’osservatore dando risalto ai puri valori visivi. Questa la mission. Attraverso la percezione del nostro sguardo il quadro non è più soltanto una superficie fissa e immutabile, si tramuta in un campo di tensioni che combinate tra di loro forniscono l’illusione del movimento, dell’instabilità e della mutazione. Arte essenzialmente grafica, essa, a discapito delle apparenze, è basata su una rigorosa definizione del metodo operativo. Gli artisti vogliono ottenere, attraverso linee collocate in griglie modulari e strutturali diverse, effetti che inducono uno stato di instabilità percettiva. Per capire la vera filosofia dell’Op Art bisogna attraversare il confine italiano alla ricerca del padre fondatore del movimento: l’artista franco-ungherese Victor Vasarely. Gli ci vollero circa vent’anni di esperienza e cinque di riflessione per arrivare a coniare il suo complesso sistema d’arte:
“La posta in gioco non è più il cuore, ma la retina […]. I bruschi contrasti in bianco e nero, l’insostenibile vibrazione dei colori complementari, il baluginante intreccio di linee e le strutture permutate […] sono tutti elementi della mia opera il cui compito non è più quello di immergere l’osservatore […] in una dolce melanconia ma di stimolarlo, e il suo occhio con lui “
Il centro della teoria vasareliana sta nei programmi. Anticipando la sensibilità minimalista, che rifiuta qualsiasi soggettivismo, Vasarely formalizza la distanza fra l’autore e la sua opera, utilizzando schemi che fanno capo a precise istruzioni per dipingere. Sono schemi che contengono griglie, figure e numeri cui corrispondono colori e sfumature. Questo metodo rappresentò all’epoca una grande svolta nel mondo dell’arte. Le ragioni di tale cambiamento vanno ricercate nel dibattito sul futuro dell’opera d’arte nel periodo in cui nasce la riproducibilità tecnica, nella quasi contemporanea scoperta da parte degli artisti pop, come Andy Warhol, del procedimento serigrafico. Questo, di fatto, apre la strada all’idea multipla dell’opera d’arte e alla conseguente perdita di significato del pezzo unico. Anno epocale per questo movimento artistico è il 1955 quando Vasarely si fa promotore alla Galerie Denise René di Parigi della mostra “Le mouvement”, a cui partecipano i futuri protagonisti dell’Op Art: lo scultore belga Pol Bury, il boliviano Jesus Rafael Soto, specializzato in installazioni cinetiche, insieme a Marcel Duchamp con i “Rotoreliefs”. Da questa l’entusiasmo di una generazione più giovane: l’inglese Bridget Riley, raffinata colorista, che si spinge all’estremo di una pittura capace di provocare sensazioni di autentico smarrimento nel pubblico. Daniel Buren, che trasferisce la sua pittura in una dimensione di arte pubblica da collocare all’esterno e in relazione con l’architettura. L’israeliano Agam, i quali escamotages ottico-illusionisti danno vita a quello stesso sentimento di vertigine e disorientamento su cui Alfred Hitchcock costruisce la teoria del suo film “Vertigo”, uscito nel 1958. E’ un’arte perennemente adattata e riadatta all’attualità del momento. Gli anni sessanta e settanta ne consacrano il successo. Vasarely titola diverse sue opere con il nome di stelle e costellazioni, proprio quando l’uomo sta sondando le possibilità dello spazio fino a compiere il viaggio definitivo che lo porterà dalla terra alla luna. Nel 1968 l’Op Art ispira anche artisti della moda: è Paco Rabanne che disegna un’intera collezione ispirata a Vasarley. “Non gli interessa il potere delle icone – scrive lo storico dell’arte Luca Beatrice – ma la capacità di dialogare con la produzione industriale, entrando in rapporto con il nascente design moderno, ovvero la riattualizzazione dell’insegnamento di Bauhaus nell’era del consumismo e del boom economico”. Insieme al design, infatti, ci sarà il lungo rapporto con l’architettura, di cui Victor Vasarely è considerato assoluto pioniere. Nel 2012 la teoria e le idee dell’Op art sono state applicate ai modelli della casa automobilistica più rinomata nel mondo. Wolfgang Seidl, art-director e designer tedesco rende l’immagine degli ultimi modelli firmati Ferrari in versione optical. D’altronde una delle frasi più note del Drake era:
“Ho visto ciò che non c’è, ho immaginato di vedere ciò che invece c’è”.
Ad aiutare Seidl in questo progetto è stato Florian Drahorad, capo creativo di RTT, azienda specializzata in visualizzazioni 3D in tempo reale di alta gamma. L’Op Art, oggi come ieri, continua a stupirci e ad ammaliarci. Non ci resta che aspettare il prossimo atto di questo movimento sempre all’avanguardia che mescola insurrezione e legge, utopia e regola.
Fonte: http://www.setup-web.it/