A quanti di noi è capitato “nel bel mezzo del cammin di nostra vita” di sentirsi costretti a vivere una vita non nostra? Alcuni si rassegnano e tirano avanti, altri invece coraggiosamente riescono a prendere una decisione diversa, per dare una nuova direzione alla propria vita verso la realizzazione di un sogno.
Alberto Salerno, 57 anni, comisano d’origine si presenta così: felpa rossa e scarpe da ginnastica ai piedi, due occhi che parlano e due mani vissute, quelle che lavorano da sempre. Per se stesso, per gli altri.
Per una vita intera Alberto, che ha fin da subito voluto accorciare le distanze dandoci del “tu” , faceva il pasticcere nella sua città d’origine, ma nell’agosto del 1998 decide di fare un viaggio, un’esperienza missionaria in Madagascar, dove il sorriso delle persone ti avvolge come il suo caldo soffocante. E quest’anno festeggerà il suo decimo anno di missione proprio lì.
“Ci sono scene che ti si imprimono negli occhi per sempre, quelle che ti danno il coraggio di stravolgere la vita e di farti credere che è quello che vuoi davvero fare – ci racconta – I primi giorni non li dimentichi, neanche il momento in cui vieni letteralmente sommerso da decine e decine di bambini ed offri loro dei biscotti. Poco dopo ti giri e ti accorgi che una bambina aveva aperto il sacchetto per leccare le briciole rimaste. Quelle briciole sono un forte e chiaro segno del destino che era lì il mio posto nel mondo. E lì ci sarei tornato prima o poi”.
Così, il 26 settembre del 2006, dopo una determinata preparazione spirituale ed una scelta maturata in quegli otto anni, parte per il Madagascar, abbandonando definitivamente il suo lavoro da pasticcere. Fino a luglio 2012, lavorava all’interno della Congregazione in un orfanotrofio a servizio dei bambini, a Tsaravavaka ad Antsirabe, che geograficamente, è situata al centro sud del Madagascar.
Insieme alla madre delegata Suor Lucia Iannizzotto, cofondatrice dell’associazione “Ponte di Solidarietà col Madagascar Onlus” , curano le adozioni a distanza da diversi paesi ed in particolare dall’Italia e dalla Sicilia (Ragusa). Con una piccola contribuzione annua si può diventare “genitori” di un bimbo sottraendolo alla miseria e all’analfabetismo. La provincia di Ragusa sul ramo della solidarietà rimane una comunità virtuosa rispetto al resto della Sicilia. I “genitori” oltre che nel capoluogo, vivono a Vittoria, Comiso, Acate, Chiaramonte e Monterosso.
“Spesso, durante l’anno – ci racconta ancora Alberto – faccio delle tournèe negli altri nostri istituti presenti in Madagascar, mi occupo dei cosiddetti “ragazzi di strada” cui offriamo momenti di incontro formativi e ricreativi. Fare il missionario da dieci anni e probabilmente per tutta la vita, non è facile, devi essere uno di loro – sorride”.
Così ci racconta una delle decine di storie che ti fa venire immediatamente la pelle d’oca e lo fa con un sorriso sincero che lo riconosci solo dagli occhi che brillano. E ad Alberto gli occhi brillano di entusiasmo come pochi.
“Un giorno giocavo a palla con i bambini, tra quelle capanne fatte di rami d’albero e fango secco, quelle che poi d’inverno con le piogge, il fango si scioglie e ci piove dentro. Dentro. Dentro, dove non c’è nulla. Comunque… giocavamo spensierati e respiravamo la natura. Ad un certo punto uno di loro, mi scontra sbadatamente e scappa via. Chiedo ad un suo amico di presentarmelo, avrei voluto conoscerlo. Quel bambino mi aveva scontrato perché era cieco. Quell’incontro scontro mi voleva dir qualcosa. Servivano delle cure per quel bambino, così mi sono impuntato per riuscire a trovarle. Qualche mese dopo è venuto a farci visita un medico, bastava un collirio. Un collirio, capite? Il bambino, adesso, può guardare il mondo e tutti i suoi colori. Può dare un calcio forte al suo pallone. Può venirmi incontro e chiedermi scusa perché non mi ha visto. Non perché non ci vede. Quel bambino, adesso, ci vede” – continua.
Alberto non è solo una speranza per i diseredati, ma lo è anche per noi che restiamo.
“Mi fermerò solo quando sarà il mio corpo a dirmi che non ce la fa più”. Concludiamo il nostro incontro con Alberto, con queste parole. Le ha pronunciate a bassa voce, con quella calma che è solo dei forti.