Ottimismo e pessimismo: due modi diversi di guardare il mondo.
I pessimisti tendono a credere che gli eventi negativi durino molto tempo, distruggano tutto e siano la conseguenza di colpe proprie. Gli ottimismi, quando devono affrontare le avversità si comportano in maniera opposta. Tendono a credere che la sconfitta sia temporanea e che le cause siano circoscritte ad uno specifico evento. Credono che il fallimento non sia una conseguenza di propri errori ma di circostanze, cause esterne, sfortuna o azione di qualcun altro. Non si scoraggiano dopo una sconfitta, ma la percepiscono come una sfida da affrontare e sostenere strenuamente.
Questi due modi di interpretare le cause degli eventi hanno conseguenze importanti. Le ricerche dimostrano che i pessimisti si arrendono più facilmente e cadono più spesso in depressione, mentre gli ottimisti rendono meglio nel lavoro, nello studio e nello sport e quando concorrono per una carica tendono ad essere scelti più spesso dei pessimisti.
L’atteggiamento pessimista può sembrare tanto profondamente radicato da considerarsi permanente. Non la pensa così Martin E. P. Seligman, docente di Psicologia alla University of Pennsylvania ed autore del libro “Imparare l’ottimismo”. Partendo, come la maggior parte degli psicologi, dalla sofferenza non si è limitato ad accogliere una domanda di consolazione e non ha ritenuto sconveniente l’idea che gli psicologi si occupassero di accrescere la felicità, oltre che lenire l’infelicità. Seligman, che studia il fenomeno da trent’anni, ritiene che i pessimisti possono imparare ad essere ottimisti, ma non attraverso stupidi stratagemmi come declamare banalità o attraverso fantasie consolatorie, ma apprendendo un nuovo set di abilità cognitive. Si tratta di andare oltre quello che ha definito ‘impotenza appresa’, cioè lo stato di chi ha perso ogni fiducia nella possibilità di essere arbitro del proprio destino, di chi è alla mercé di forze che non controlla, di chi è nell’impossibilità di dare un senso e una direzione a ciò che gli accade.
Non si tratta di una disposizione innata, di un tratto della personalità, ma di un modo di confrontarsi con la realtà, che viene assimilato nel corso della propria vita. Sin dall’infanzia, le interpretazioni di educatori e genitori del successo e dell’insuccesso, iniziano un tirocinio che gradualmente si cristallizza in modi di pensare e predispongono a vedere il mondo attraverso le lenti dell’ottimismo o del pessimismo, lasciando spazi più o meno ampi alla speranza e all’audacia. Naturalmente lutti, perdite, malattie non giovano ad alcuno e la letteratura ha scritto ampie pagine sulle conseguenze di tali eventi. Ma forse non si è data la stessa attenzione ed importanza ad altre cause che possono instillare ed alimentare visioni pessimistiche dell’esistenza, come i modelli genitoriali, l’atteggiamento degli educatori e dei compagni.
E’ dunque lo stile di spiegazione degli eventi, di attribuzione e generalizzazione della causalità, quello che distingue gli ottimisti dai pessimisti. Se si ritiene che la causa del proprio fallimento sia permanente e pervasiva non si farà nulla per cambiarla o per migliorarsi, se invece si ritiene che la causa sia temporanea e specifica si può agire per cambiarla.. Le cause temporanee limitano l’impotenza nel tempo e le cause specifiche limitano l’impotenza alla situazione di origine. L’autentico ottimista non è mai un illuso o un irresponsabile, ma è al contrario una persona con uno stile esplicativo aperto alla speranza e al coraggio del cambiamento. Trovare cause temporanee e specifiche delle avversità è l’arte della speranza.